Consapevoli e preoccupati per la crisi demografica del nostro Paese, convinti che si facciano meno figli a causa delle condizioni economiche. È la fotografia degli italiani così come emerge dal sondaggio effettuato da EMG Different, realizzato in concomitanza con “Demografica: Popolazione, persone, natalità’”, evento organizzato ieri a Roma nell’ambito delle celebrazioni del 60esimo anniversario di Adnkronos, con la partecipazione di rappresentanti delle istituzioni, del Governo, di Enti pubblici e aziende.
Ben 8 italiani su 10 del campione di 1.500 persone intervistato da Emg Different sono consapevoli della crisi demografica in atto in Italia. Aumento del costo della vita (37%), precarietà del lavoro (35%) e insufficienti livelli retributivi (29%) sono per principali tre cause del calo demografico, secondo il campione, seguite dalla mancanza di servizi per i figli (28%).
Alla consapevolezza corrisponde anche preoccupazione: il 76% degli intervistati si dichiara preoccupato soprattutto per il crescente invecchiamento del Paese (51%) e per il rallentamento della crescita economica (40%). Ma solo il 19% del campione si dichiara essere molto preoccupato “dato questo”, ha commentato Fabrizio Masia amministratore delegato di Emg Different nel corso della presentazione dei dati, “ancora troppo basso per scatenare una risposta sociale forte”.
Intervenire è una necessità non più procrastinabile per l’82% degli intervistati. In cima alle priorità emerge l’incremento delle strutture pubbliche per la prima infanzia (35%), seguito dalla necessità di maggiori aiuti economici per famiglie con figli (31%) e sostegno alle donne per conciliare lavoro e famiglia (29). Il ventaglio delle proposte di intervento emerse dal sondaggio contempla anche l’incentivazione del lavoro femminile, accessi agevolati al mercato immobiliare, maggiore collaborazione degli uomini nella cura della casa e dei figli.
“Dal nostro sondaggio risulta evidente non solo che la stragrande maggioranza degli intervistati è consapevole di questa emergenza – ha proseguito Masia – ma che c’è molto da discutere sulle soluzioni da adottare per fronteggiarla. Per gli italiani insomma è arrivato il momento di intervenire: il dibattito lanciato dall’Adnkronos e i dati che emergono da questa indagine e dagli altri interventi potrebbero offrire un contributo utile ai decisori pubblici”.
Nel corso dell’evento si è cercato di analizzare questi dati più nello specifico guardando al tessuto sociale e alla composizione della popolazione del nostro paese. Dire che il calo demografico dipende esclusivamente dalla diminuzione della natalità è riduttivo e impreciso per tutti i partecipanti al tavolo di discussione.
“Da previsioni Istat, si stima che da una popolazione di 59,2 milioni passeremo a 57,9 milioni nel 2030 e a 54,2 nel 2050”, ha detto Linda Laura Sabbadini, Direttore Centrale Istat. “Il problema però non è tanto il calo della popolazione quanto piuttosto la struttura di tale popolazione. Si calcola infatti – ha proseguito – che nei prossimi 30 ci sarà un aumento del 12% della popolazione anziana e una diminuzione del 10% della popolazione in età lavorativa”, popolazione questa che dovrà provvedere al benessere delle future generazioni. E ancora, “il rapporto tra anziani e minori di 14 anni diventerà 3 a 1 con una conseguente difficoltà di sviluppo”. Ecco dunque perché parlare di calo di natalità senza considerare anche la progressiva perdita di popolazione in età lavorativa rischia di non dare quella visione di insieme necessaria per affrontare il problema nella sua interezza. Per Sabbadini anni di politiche miopi, prive di una visione di lungo periodo, hanno portato alla situazione attuale. E allora due sono le linee di intervento secondo l’esperta: incentivare l’occupazione femminile con politiche sociali e risolvere il problema della carenza di popolazione in età lavorativa con politiche che includano l’immigrazione, come ad esempio è stato fatto in Germania nel 2015. Non è realistico e corretto dire che il problema del calo demografico si possa risolvere solo con un aumento della natalità.
Anche Alessandro Rosina, Professore ordinario di Demografia e Statistica sociale, Facoltà di Economia – Università Cattolica del Sacro Cuore concorda con questa visione e spiega che il calo demografico, in realtà, è qualcosa di fisiologico. Rispetto al 1800 quando la proporzione era di 5 figli per donna, ma con una mortalità infantile più alta, oggi la media di 2,1 figli per donna è perfettamente congrua rispetto alla mortalità odierna. In altre parole per bilanciare il rapporto tra nuove nascite e popolazione generale sono sufficienti due figli a coppia. Il problema è però un altro, quello della composizione di questa popolazione generale.
In Europa si presentano tre scenari di riferimento: paesi come la Francia o la Svezia in cui la media di figli per donna e leggermente sotto i 2,1 e nei quali si è investito in politiche sociali per mantenere costante questo standard; paesi come la Germania in cui la media è inferiore, ma in cui da tempo vengono adottate delle politiche di welfare per arginare il fenomeno agendo sulla quota di persone in età lavorativa; paesi come l’Italia in cui la media è molto al di sotto del 2,1 e in cui non vengono portate avanti, e questo da anni, politiche per porre rimedio al calo demografico. È evidente che nel primo e nel secondo caso l’aver agito per tempo e aver portato avanti politiche per l’impiego femminile, a favore della genitorialità e parallelamente volte a rafforzare la popolazione in età lavorativa ha portato al controllo del fenomeno e anzi, in prospettiva futura, porterà a un progressivo miglioramento.
“L’Italia non si differenzia dagli altri paesi per aspettativa di vita o per il numero di figli desiderati dalle donne, ciò che manca al nostro paese è la capacità di capire in che modo avere una struttura demografica adeguata a vivere più a lungo e bene”, ha detto Rosina. Una via è quella dell’incentivare le politiche per l’occupazione femminile. “Senza tali politiche si rischia un impoverimento globale e uno squilibrio demografico importante”. È un cane che si morde la coda: “le donne con figli tendono ad essere costrette ad abbondonare il lavoro per la difficoltà a conciliare vita lavorativa e vita privata. Se non lavorano la famiglia si impoverisce e questo genera un aumento della povertà infantile con conseguente ricaduta anche sulla sanità”, ha concluso l’esperto.
La natalità e il calo demografico sono necessariamente una questione di salute pubblica che va affrontata sotto diversi punti di vista. Per Mario De Curtis, Presidente Comitato Nazionale per la Bioetica – SIP Società Italiana di Pediatria, la priorità è assicurare ai nuovi nati un buono stato di salute. Per fare questo, secondo l’esperto, sono necessari ulteriori fondi alla sanità pubblica e intervenire sul divario regionale che caratterizza l’accesso a la riuscita delle cure. A tal proposito De Curtis ha ricordato che è vero che l’Italia è uno dei paesi con il più basso tasso di mortalità al mondo, ma è altrettanto vero che il “50% delle morti avviene nel primo anno di vita e si concentra soprattutto al Sud con Calabria, Sicilia e Campania in testa”. Proprio per questo, anche quando si parla di cure pediatriche, assistiamo al fenomeno della migrazione sanitaria. “I bambini del Sud vanno in un’altra regione per curarsi nel doppio dei casi rispetto al Centro-Nord”, ha ricordato De Curtis, con conseguenze economiche non solo per le famiglie ma anche per i sistemi sanitari regionali impegnati a pagare le prestazioni dei propri assistiti ad altre regioni. Poi vi è un problema di povertà infantile. “Secondo le stime oggi in Italia ci sono un milione e 400mila minori in povertà”, ha precisato l’esperto. Con le politiche attuali, e come si evince anche dal sondaggio di Emg Different, l’arrivo di un bambino in una famiglia potrebbe essere fonte di impoverimento ed è un dato di fatto che i bambini che vivono in condizioni di povertà tendono ad ammalarsi di più. Per questo, ha concluso, serve maggiore attenzione all’infanzia e maggiori investimenti.
Da prendere in considerazione sono anche la fertilità maschile e quella femminile. Andrea Isidori, Presidente Siams Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità, ha posto l’accento sugli stili di vita per salvaguardare la salute riproduttiva dei ragazzi. “Osserviamo da anni un progressivo declino del potenziale riproduttivo maschile”. Un fenomeno legato a più fattori, “inquinamento, ma anche stili di vita”, ha detto l’esperto. “Ogni anno che passa – ha sottolineato Isidori – si riduce il numero e la qualità degli spermatozoi. Un problema globale” che interessa anche altri paesi come ad esempio la Cina dove “è emerso che non è disponibile una quantità sufficiente di donatori per le banche del seme”. Il Paese orientale “ci fa ovviamente pensare all’inquinamento: viviamo immersi in un cocktail di sostanze che influisce sulla fertilità”, un problema da affrontare con politiche generali, dice l’esperto.
Su un piano più strettamente medico, invece, “da un’analisi su 12mila ragazzi italiani delle superiori ai quali sono stati misurati i volumi testicolari è emerso che il 17% aveva volumi patologici. Ciò significa che c’è qualcosa che interferisce con il normale sviluppo. Un fattore in grado di spiegare una buona parte di queste patologie sono gli stili di vita. I ragazzi sono esposti ad alcuni elementi, dall’alcol a sostanze da abuso, che in questa fase dello sviluppo sono importanti e per questo dobbiamo lavorare sugli stili di vita”. Non solo. Secondo lo specialista esiste anche un problema di comunicazione: “Dire ai ragazzi ‘non prendere queste sostanze perché compromettono la fertilità’ rischia di non avere molta presa. Serve cercare messaggi positivi da comunicare”. Parallelamente però, ha concluso Isidori, sono necessarie campagne di screening “perché molte delle patologie andrologiche che si acquisiscono in questa fase di transizione – dall’età pediatrica alla maturità – si possono gestire, ma vanno riconosciute”.
Per quanto riguarda le donne il fattore tempo è di grande peso. “La fertilità femminile cala circa 12 anni prima della menopausa. Nessuna donna sa quando accadrà in maniera precisa. Noi sappiamo, però, che un 10% va in menopausa tra i 40 e i 45 anni. Sottraendo 12 anni risulta che una donna su 10 avrà problemi di fertilità intorno ai 30 anni. Questo vuol dire che nonostante l’ovulazione presente i suoi ovociti diventano incapaci di essere fertilizzati”. A spiegarlo è stato Antonio Lanzone, direttore dell’Unità di ostetricia e ginecologia del Policlinico Gemelli di Roma, che ha aggiunto come questo sia un problema di cui si ha “una scarsa coscienza”. Anche perché “c’è una grande illusione sulle tecniche di fecondazione assistita. Quando un ovulo, infatti, non è più competente anche i risultati delle tecniche di fecondazione scendono, così come si riducono se c’è anche sovrappeso, tabagismo”.
Inoltre, l’età della futura mamma “fa da driver per altri fattori. Per esempio. Se la donna decide di avere un bambino a un’età più avanzata sarà più facilmente sovrappeso. C’è più possibilità che si trascini malattie ginecologiche, fibromi, endometriosi. Ma c’è anche più accumulo di inquinanti atmosferici o alimentari, l’alcol ad esempio. L’età influisce anche sulla qualità ovocitaria. Fattori che non si sommano ma si moltiplicano”, ha concluso Lanzone.