L’esercizio aerobico rallenta il Parkinson

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La riabilitazione intensiva e l’esercizio aerobico rallentano la progressione del Parkinson. E’ quanto emerge da ricerche su modello animale condotte da Paolo Calabresi, ordinario di neurologia alla Cattolica e direttore di neurologia al Gemelli Irccs e Veronica Ghiglieri, associato di fisiologia all’l’Università telematica San Raffaele, e finanziate dalla Fondazione Fresco Parkinson institute Italia Onlus di Fiesole.

Le ricerche, si spiega, sono basate su studi effettuati negli ultimi dieci anni in persone colpite dal Parkinson che hanno seguito un programma intensivo di riabilitazione associato a esercizio aerobico a media-alta intensità. Inizialmente ideato da Giuseppe Frazzitta e condotto nell’ospedale Moriggia-Pelascini di Gravedona e da Daniele Volpe alla casa di cura Villa Margherita di Vicenza, il programma si svolge per un periodo di quattro settimane sotto la supervisione di un team multidisciplinare. I risultati di questo approccio terapeutico sono stati pubblicati in diverse riviste scientifiche. “In breve – si spiega – questo programma intensivo sembra rallentare la progressione della malattia, inducendo a livello motorio e cognitivo miglioramenti che perdurano nel tempo e che sono legati all’attivazione di meccanismi legati alla plasticità cerebrale nei pazienti che si sottopongono a questo trattamento”.

La recente pubblicazione del gruppo di Calabresi e Ghiglieri “conferma questa ipotesi in un modello animale, specificando un preciso meccanismo attraverso cui l’esercizio fisico ad alta intensità migliora la funzione dei neuroni e contrasta gli effetti di tossicità neuronale. In questo studio, l’allenamento giornaliero su tapis roulant per quattro settimane nei topi porta a una ridotta diffusione di aggregati di alfa-sinucleina, un composto che, nella malattia di Parkinson, porta alla morte di neuroni. L’effetto neuroprotettivo indotto dall’esercizio fisico è mediato dall’aumento del Bdnf (brain-derived neurotrophic factor) e perdura nel tempo ben oltre l’interruzione dell’esercizio fisico”. La scoperta di questo meccanismo, afferma Calabresi “può aiutare ad identificare nuove terapie e marcatori funzionali per sviluppare trattamenti non-farmacologici utilizzabili in combinazione con terapie farmacologiche attualmente in uso”.

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