C’è anche la complicità della qualità del liquido seminale nelle storie di donne che incorrono in aborti spontanei ricorrenti, cioè nella perdita di due o più gravidanze successive. L’insuccesso ostetrico, oggi attribuito in prevalenza a fattori femminili, come squilibri ormonali e metabolici, malformazioni uterine, infezioni del tratto genitale, alterazioni della coagulazione, avrebbe una potenziale spiegazione nell’uomo. A dimostrarlo sono recenti studi, che proseguiranno anche grazie a finanziamenti della Fondazione Humanitas per la Ricerca, coordinati dai ricercatori del Centro multidisciplinare di patologia della gravidanza di Humanitas San Pio X, sotto la guida di Nicoletta Di Simone, docente di Ginecologia e ostetricia della Humanitas University.
Anomalie del liquido seminale (ad esempio un inadeguato numero di spermatozoi, la loro morfologia alterata e la motilità ridotta), così come possibili frammentazioni del Dna spermatico o e, non ultimo, infezioni sono, secondo le ricerche, gli imputati degli aborti spontanei ricorrenti. Infezioni e Dna, in particolare, sono “fattori di rischio” nuovi e di grande importanza, tanto da indicare una strada per poter cambiare in un prossimo futuro l’approccio diagnostico-terapeutico all’insuccesso ostetrico, che ad oggi nel 40% dei casi resta ancora idiopatico, cioè non associato a una causa specifica.
“Le infezioni genito-urinarie – rileva Di Simone – stanno registrando in epoche recenti una sempre maggiore incidenza, e fra queste l’infezione da Human Papilloma Virus (Hpv), responsabile come è noto dell’insorgenza di patologie oncologiche a danno dell’apparato genito-urinario, quali il tumore della cervice uterina, o di malattie sessualmente trasmissibili. Ma ci sarebbe una implicazione anche nella capacità di concepimento: recenti studi condotti presso il nostro centro attestano un’associazione tra infezione maschile da Hpv e storie di insuccesso ostetrico nel primo trimestre di gravidanza”. Per l’esperta “è fondamentale affrontare le problematiche di infertilità non limitatamente al singolo individuo, ma alla coppia, ovvero mettendo sullo steso piano il contributo sia del partner maschile sia femminile. Ciò presuppone il coinvolgimento e la disponibilità di entrambi i partner ad affrontare insieme un percorso diagnostico terapeutico, motivo per il quale è necessario che la problematica venga approcciata in un’ottica di multidisciplinarietà, anche dal punto di vista della ricerca scientifica”.