Pubblicato sulla rivista Nature Communications, uno studio statunitense spiega perché le persone depresse fanno ricorso all’alcol utilizzandolo come una forma di ‘auto-medicazione’, che però non manca di portare conseguenze sulla salute. Infatti, si è visto che vino, birra e alcolici in generale agiscono nel cervello in modo simile agli antidepressivi.
Le premesse
Studi precedenti hanno dimostrato che farmaci antagonisti del recettore N-metil-D-aspartato (NMDA) – come la chetamina – possono alleviare i sintomi della depressione in appena due ore, con effetti fino a due settimane. Poiché anche l’alcol inibisce l’attività del recettore NMDA, ricercatori della Wake Forest Baptist Medical Center, in North Carolina, hanno deciso di indagare se effettivamente riuscisse ad agire come un antidepressivo.
Studio sui topi
Utilizzando topi maschi geneticamente modificati per sviluppare comportamenti depressivi, il team ha scoperto che quelli trattati con alcol mostravano una riduzione dei comportamenti depressivi, in modo simile a quanto facevano i topi che avevano ricevuto antidepressivi a effetto rapido. Inoltre, l’effetto era rapido e presente ancora 24 ore dopo la somministrazione dell’alcol. I ricercatori hanno quindi identificato un ‘paradigma molecolare comune’ a entrambe le sostanze: dopo aver bloccato l’attività del recettore NMDA agiscono su una proteina chiamata FMRP (coinvolta anche nell’autismo) trasformando l’acido gamma-aminobutirrico (GABA) in un neurotrasmettitore. “Ora abbiamo i dati biochimici e comportamentali per sostenere l’ipotesi dell’auto-medicazione“, spiega Kimberly Raab-Graham, autrice principale dello studio che mette però in guardia: “c’è una linea molto sottile superata la quale l’automedicazione si trasforma in dipendenza”.